Economia

La crisi senza fine dell'acciaio bresciano: "Persi 350 posti di lavoro"

"La battaglia mondiale dell'acciaio" anche a Brescia: in meno di 100 persi 350 posti di lavoro (e solo nelle fabbriche più importanti), il 9% del totale. Ma il fatturato supera ancora i 4 miliardi e mezzo

Foto d'archivio

La Cina produce da sola più del 50% dell'acciaio mondiale. Gli occupati nella siderurgia sono 76 milioni in Europa e negli Stati Uniti, ma sono oltre 670 milioni nei Paesi emergenti. Sua maestà l'acciaio: il simbolo del capitalismo. La merce delle merci: tutte le macchine che producono merci, infatti, contengono acciaio. E nel sistema del profitto l'acciaio è più importante di ogni cosa: se ne producono 500 chilogrammi a testa, contro i 90 chili di grano, e i 70 di riso.

Questi (e tanti altri) gli spunti contenuti nel volume “La battaglia mondiale dell'acciaio” - di Giulio Motosi e Piero Nardini, edizioni Lotta Comunista: 4 sezioni e 380 pagine, 70 di statistiche, 40 di indici e fonti - presentato a Brescia al cinema Nuovo Eden, davanti a più di 200 persone.

Una “battaglia” che interessa anche il Bresciano. Negli anni della crisi, dal 2008 in poi, a Brescia e provincia (e solo tra le 24 fabbriche più importanti) si sono persi quasi 350 posti di lavoro, il 9% del totale. E non è finita: “Il futuro degli operai bresciani purtroppo è segnato – ammette Giovanni Bonassi, ex operaio e delegato sindacale – e si prevedono nuovi ridimensionamenti”.

I numeri della siderurgia bresciana: 150 imprese per oltre 7000 addetti, 4 miliardi e 600 milioni di fatturato, il 13,5% della manifattura. Un terzo della produzione viene esportata, ma già si lavora anche all'estero: si contano 16 filiali produttive in Europa e nel mondo, per oltre 2000 addetti. Anche in Nord Africa: quattro aziende e 500 occupati. Il rovescio della medaglia del libero mercato: succede anche il contrario, con aziende (in questo caso gli algerini della Cevital) che “fanno shopping” tra gli stabilimenti bresciani.

Ma c'è anche la crisi. “Delle 24 fabbriche bresciane più importanti – continua Bonassi – solo in 9 casi la produzione è aumentata. In 5 è diminuita, 4 hanno chiuso”. Emblematico il caso Stefana: era il terzo polo bresciano, con 700 addetti. Un po' alla volta si è arrivati allo “spezzatino”. “Il sito di Ospitaletto è stato ceduto e bonificato, riconvertito come centro logistico da Esselunga. Ma l'occupazione è salva: 250 operai lavoreranno per Esselunga. A Nave c'erano due aziende: in Via Brescia è stata rilevata dalla Feralpi, sono rimasti 91 addetti. In Via Bologna, dove i dipendenti erano 162, è stata rinnovata la cassa integrazione ma non ci sono acquirenti”.

L'incertezza, una costante del capitale. “Nel nostro libro raccontiamo di come sia irrealizzabile la volontà di gestire la globalizzazione – spiega Mauro Parri, ex operaio alla Lucchini di Piombino – semplicemente riprendendo le parole di Karl Marx, 150 anni fa: nel capitalismo gli uomini perdono il controllo dei rapporti di produzione e dei rapporti sociali”.

“Con le elezioni americane è tornata di moda l'idea che possa bastare la politica per indirizzare l'economia. Ma non è così, e la siderurgia è una delle dimostrazioni più efficaci. Lo scriveva anche Arrigo Cervetto nel 1976: all'estensione mondiale della siderurgia corrisponde l'aumento del caos. Il consumo di acciaio, la merce delle merci, è determinato dallo sviluppo di tutti i settori mondiali. Ed è impossibile da pianificare”.

La crisi di ristrutturazione implica una concentrazione dei gruppi mondiali. Succederà anche a Brescia, anche se il gap è consistente: la somma della capacità produttiva di tutte le imprese bresciane equivale alla capacità produttiva della 31ma acciaieria più grande del mondo. La questione dei tempi, mai come oggi.

Torna d'attualità anche il fatidico interrogativo: che fare? “Il presupposto è uno solo – conclude Bonassi – e non è locale, o nazionale: bisogna alzare lo sguardo sul mondo, lavorare sull'unità d'intenti degli operai bresciani, europei e cinesi. Le battaglie protezionistiche o nazionalistiche non servono a nulla. Anzi, sono quelle che in certe epoche della storia hanno poi portato alle guerre mondiali”.


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